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Marketing e pianificazione strategica in tempi di m…. (1/2)

Marketing e pianificazione strategica in tempi di m…. (1/2)

Foto di Srikanta H. U su Unsplash

Plans are of little importance, but planning is essential (W. Churchill)

Secondo voi, Churchill viveva in tempi molto migliori del nostro? Noi in piena pandemia e lui in guerra?

Nonostante le farneticazioni di alcuni cosiddetti autori (non citerò i loro nomi, ma sfortunatamente li potreste trovare sul web), che tentano di essere originali, dicendo che strategic planning is dead adducendo un certo numero di ovvie (ma irrilevanti) considerazioni tipo quella della velocità del cambiamento, l’idea della pianificazione in generale, e della pianificazione di marketing in particolare, è tuttora viva e vegeta, e a maggior ragione in tempi difficili, anche se spesso fraintesa e controversa.

Ovviamente tutto dipende da cosa intendiamo per pianificazione e da quanto flessibilmente siamo in grado di metterla in atto: il problema, comunque, non è certo quello di mettere in discussione la sua utilità quanto quello che ben poche aziende, soprattutto fra le PMI, svolgono sistematicamente e in modo continuativo un’attività di pianificazione.

Prima di elencare una trentina (!) di buone ragioni per cui la pianificazione è utile in prossimi articoli, forse vale la pena ricordare il significato di strategia e quanto sia importante adottare un approccio strategico nel marketing.

Fra le molteplici definizioni proposte dalla letteratura manageriale, personalmente preferisco definirla in termini il più possibile operativi e finalizzati all’obiettivo:

  • insieme di decisioni
  • finalizzate alla destinazione di risorse
  • in prospettiva di medio-lungo termine
  • a una o più combinazioni prodotto/mercato
  • in vista di obiettivi specifici
  • considerando le opportunità e le minacce esterne
  • e le capacità e i vincoli interni;
  • definizione dei relativi piani d’azione.

Inutile dire che, senza un piano d’azione, o comunque senza azioni coerenti e concrete, tutto il resto è total bullshit!

Se ora precisiamo che l’obiettivo è soprattutto quello di creare valore per l’organizzazione grazie al valore offerto al mercato (la nostra sintesi del concetto di marketing), questa definizione è applicabile a qualsiasi contesto di business, inclusi quelli delle organizzazioni non-profit, che non potrebbero sopravvivere e prosperare per poter continuare a fornire valore se non alimentassero le proprie risorse attraverso il mercato stesso e/o i donatori che credono nella loro ragion d’essere.

Chiunque capisce (o dovrebbe capire) che la vera fonte della prosperità per qualsiasi organizzazione è il mercato, che ne acquista i prodotti o i servizi o comunque ne beneficia anche nel caso dei settori non-profit: senza vendite e/o altre fonti di finanziamento (giustificate dai bisogni del mercato), l’organizzazione non sarebbe in grado di generare alcun valore, e tutti gli altri potenziali fornitori di fondi e risorse (azionisti, banche, fornitori, donatori) prima o poi (probabilmente prima!) smetterebbero di alimentarla.

Al cuore di qualsiasi strategia di business è quindi indispensabile disporre di una solida strategia di marketing: tutte le altre aree funzionali (ricerca e sviluppo, produzione, finanza, logistica, vendite, comunicazione) sono di fatto “ancillari” alla funzione marketing, e non sopravvivrebbero se l’organizzazione non fosse in grado di soddisfare il mercato fornendo valore.

Per inciso, penso valga la pena dare un’occhiata al famoso articolo di trent’anni fa di Regis McKenna, che già allora aveva capito tutto!

Se siamo d’accordo su questi obiettivi strettamente collegati, ossia generare valore per l’organizzazione attraverso la soddisfazione del mercato, dovremmo anche concordare sulla necessità di stimare, misurare e controllare il loro raggiungimento e di comprenderne le interrelazioni, al fine di prendere decisioni strategiche che ne influenzino positivamente il comportamento nel tempo: e questa è, né più né meno, pianificazione! … in attesa di definirla un po’ più in dettaglio la prossima volta (giusto per lasciare un po’ di suspense …)

Volendo quindi perseguire e tenere sotto controllo il raggiungimento di questi obiettivi, che sono il “faro” della pianificazione, gli indicatori veramente significativi sono pochi ma buoni: un indicatore sicuramente fondamentale, ma non facile da misurare, è proprio il “valore” fornito al mercato e il relativo confronto competitivo: ne parla esaurientemente l’amico Alfonso nell’articolo relativo.

Qui mi limito a considerarne altri due, in buona misura interrelati, ma che vengono spesso ignorati, sia per scarsa capacità di stimarli che, soprattutto, perché non ne viene sufficientemente compresa l’importanza:

  • il margine di contribuzione, che è la variabile più appropriata per valutare il contributo effettivo (ricavi o qualsiasi altra fonte di fondi meno costi variabili, costi fissi diretti e costi comuni “tracciabili”) di un dato e specifico business alla redditività complessiva dell’organizzazione, soprattutto se si opera in più di un business, che è il caso più frequente: soltanto se conosciamo la contribuzione netta di tale “specifico” business saremo in grado di valutarne il rendimento in rapporto alle risorse specificamente utilizzate per generarla (altro indicatore significativo e normalmente ignorato nella pratica aziendale);
  • la quota di mercato, che rappresenta la porzione dei consumi o utilizzi soddisfatti dall’organizzazione rispetto ai consumi o utilizzi totali, anche qui con riferimento allo specifico business di cui sopra, nell’ambito di un dato orizzonte temporale.

A proposito della quota, è forse il caso di anticipare possibili obiezioni tipo “siamo troppo piccoli perché abbia senso misurarla” oppure “è troppo costoso tenerla sotto controllo” oppure addirittura “misurarla serve a poco”:

  • questo indicatore è importante anche per piccole e medie imprese, purché sia identificato e delimitato correttamente il mercato che si è in grado di raggiungere (il cosiddetto mercato “pertinente”), nello specifico settore di attività, data una certa organizzazione commerciale (per approfondimenti potete dare un’occhiata alla trilogia di Gianni e la sua quota);
  • ciò non vuol dire che sia necessario essere “precisi” nello stimare la nostra presenza relativa sul mercato, ma dovremmo almeno avere un’idea del trend di tale presenza, soprattutto in relazione alle due componenti della quota: “copertura” del mercato raggiungibile e “penetrazione” dei consumi o utilizzi medi;
  • dire che market share in not anymore fashionable, come altri ineffabili autori affermano nel tentativo di essere originali e vendere qualche copia in più dei propri libercoli, è di una banalità sconcertante (se si intende dire che il perseguimento della quota non deve andare a detrimento della redditività o del cash flow) o semplicemente insensato (eufemismo) se si intende che la quota non serve: senza una posizione di mercato (precisamente, una “quota” qualsiasi) sarebbe semplicemente impossibile generare ricchezza!

In conclusione (almeno per ora)

Il problema non è tanto quello di incrementare necessariamente la quota (potrebbe essere poco sensato in contesti molto competitivi e settori stagnanti, in cui si rischierebbero ritorsioni anche brutali, soprattutto attraverso guerre di prezzo, e tutti i superstiti finirebbero per guadagnare meno), ma di trovare il giusto equilibrio fra risorse investite, posizioni di mercato che gli investimenti sono in grado di generare e redditività che le posizioni di mercato possono consentire, per poter poi reinvestire attivando un circolo virtuoso.

Il circolo vizioso consisterebbe invece nell’investire poco e/o male, non riuscendo a generare posizioni di mercato soddisfacenti, e quindi non essendo in grado di produrre redditività che possa essere reinvestita in modo più appropriato.

In ogni caso, sembra ovvia l’utilità di tenere sotto attento controllo, per poter meglio orientare l’attività di pianificazione e le decisioni di investimento:

  • il valore per il mercato che tali decisioni riescono a produrre
  • il grado e la forma di riconoscimento di tale valore, che si concretizzano nelle posizioni di mercato
  • il valore per l’azienda, in termini di redditività, generato da tali posizioni.

Per inciso, e sempre a proposito di stima della presenza relativa dell’azienda sul mercato, sarebbe inoltre opportuno, nel caso di beni durevoli (la cui vita utile va oltre il periodo di tempo di riferimento, di solito l’anno) distinguere la quota delle vendite da quella del cosiddetto “parco installato”, considerando i tassi di obsolescenza tecnica e commerciale dei beni, ma non complichiamo troppo le cose con elucubrazioni da nerd …

(continua in un prossimo articolo)