Funzione (matematica)

Apologies to the author of this nice photo on Unsplash: I cannot find him/her anymore
La teoria è quando si sa tutto, ma non funziona niente. La pratica è quando funziona tutto ma non si sa il perché. In ogni caso si finisce sempre con il coniugare la teoria con la pratica: non funziona niente e non si sa il perché (Albert Einstein)
Qui mi sembra proprio che Alberto esagerasse in pessimismo, tanto più che, a quanto pare, molte delle sue teorie, anzi, praticamente tutte, funzionano ancora perfettamente, anche nella pratica: tanto per dire, la microelettronica, le telecomunicazioni, la radioterapia, il GPS, le cellule fotoelettriche, le fotocamere digitali, ecc. ecc.
C’è da dire che le funzioni che sintetizzano le sue teorie, tipo quella famosa qui sopra che stabilisce la relazione fra massa ed energia e che perfino a lui sembravano inizialmente puramente teoriche, a me sono sempre parse un po’ arcane, ed è forse meglio che, per quanto riguarda le funzioni matematiche che sintetizzano le relazioni fra grandezze nel campo del business e sono alla base delle simulazioni e dei vari modelli di supporto alle decisioni da noi concepiti, lasci la parola ai miei giovani amici (Alfonso e Virgilio), sicuramente più freschi di studi del sottoscritto.
Approfitto tuttavia dell’occasione, visto che è molto di moda parlare di storytelling e di narrazione, per raccontarvi una storia, anzi, la prima puntata di una delle mie famose storielle “esilaranti e iconoclaste”: “Gianni e la sua quota: un caso (anzi, un casino!) di marketing presbiopia”.
A dire il vero, l’avevo infilata nel capitolo sull’efficacia del nostro libro di tredici anni fa, ma è comunque pertinente richiamarla in questa sede, dato che, come vedrete soprattutto nella seconda puntata (v. Efficacia) la quota è proprio il prodotto di penetrazione per copertura: nel mio piccolo, posso quindi sintetizzare il concetto con una funzione che assomiglia molto, mutatis mutandis, a quella di Alberto: Q = pc!
Avete sicuramente sentito parlare del famoso articolo di Theodore Levitt su “marketing myopia”, per cui non mi dilungo nel ricordarvi che i markettari tendono talvolta a non vedere al di là del proprio naso.
Ma non è questo il punto, anzi: oggi vorrei proprio raccontarvi un caso di aberrazione visiva all’estremo opposto. che a mio parere affligge un numero di colleghi ancora maggiore: la tendenza a traguardare un mercato molto più vasto del necessario, o comunque diverso da quello “pertinente”, e a non rendersi conto che la propria quota di mercato è tutt’altro che insignificante, per cui varrebbe proprio la pena di tenerla sott’occhio.
C’era una volta (anzi, mi auguro ci sia ancora) Gianni, un piccolo imprenditore del sud produttore di abiti da sposa.
Questo Gianni, come partecipante a un corso su strategia aziendale, era stato l’unico (su 25 partecipanti) in grado di rispondere (sia pure, come vedremo, in modo alquanto approssimativo) a una delle mie tipiche domande di esordio (giusto per vedere con chi ho a che fare): Chi di voi ha un’idea dell’entità della propria quota di mercato, almeno in uno dei settori/segmenti di attività più importanti per la propria azienda?
Per inciso, avete un’idea di quello che pensavano — in the meantime — i suoi colleghi?
… ma che è la quota di mercato?… e che è il segmento?
… ma figuriamoci se, piccolo come sono, ha senso misurare la mia quota …
… col cavolo che spendo dei soldi in ricerche di mercato per stimare la mia quota …
… e così via…
Per farla breve, ecco la risposta di Gianni al brusio di stupore scatenato dalla sua alzata di mano e alla tacita richiesta di spiegazioni su “come-diavolo-facesse” a conoscere la sua quota:
“Semplicissimo: alla Camera di Commercio mi hanno detto che in Italia ci sono circa 300.000 matrimoni all’anno, io vendo circa 3.000 abiti da sposa…uno pe’ cciento di quota!”
Indovinate quanto era, invece, l’ordine di grandezza più verosimile della sua quota?
Seguitemi in questi semplici passi:
- togliamo dai 300.000 matrimoni il 40% delle future spose che se ne guardano bene dal comprare un abito da sposa, o perché ce l’hanno già (dalla mamma o dalla nonna), o perché se lo fanno, o perché l’affittano, o perché si vestono altrimenti (stima di Gianni, sollecitato a riflettere sul tema e supportato da un suo diretto concorrente, conosciuto lì per lì, che partecipava al medesimo corso)
- dal 60% restante togliamo l’80% di quelle che non appartengono al target di mercato di Gianni (dovete sapere che sia lui che il concorrente producono abiti di fascia alta).
Resterebbe il 12% di 300.000, pari a 36.000 capi. Arrotondiamo pure a 40.000, ma qui viene il bello:
- quale credete che sia la porzione del mercato nazionale con cui Gianni riesce a entrare in contatto, grazie alla sua limitata forza vendita?
- stiamo pure larghi, tenuto conto che Gianni è molto dinamico, intelligente, e copre un segmento di élite, servito da un numero di punti vendita non proibitivo: facciamo il 50%?
Avremmo quindi, uno per l’altro, un mercato “pertinente”, ossia quello con cui Gianni riesce a entrare in contatto e su cui vale la pena che stimi la sua presenza relativa (in pratica, la sua quota), di circa 20.000 capi!
Una bella differenza rispetto ai 300.000 matrimoni!
In pratica, la “vera” quota di Gianni sarebbe attorno al 15%, altro che 1%!
…ma siamo sicuri che sia così “vera”?
Immagino già le vostre obiezioni:
- sono capaci tutti di avere una quota alta se si rivolgono a un mercato molto piccolo!
- questo è un metodo spannometrico (pif-au-métrique, se volete fare i fini e avete una zia francese), ci vuol altro per stimare la quota in modo ragionevolmente accurato!
- … e i metodi più accurati sono costosi, e le piccole aziende non possono permetterseli …
Contro-obiezione alla prima obiezione:
e allora? tutto dipende dall’obiettivo dell’analisi:
- un conto è capire quanto è grande il mercato cui potremmo accedere se la nostra organizzazione di vendita fosse più ampia: questo indicatore, pur importante, ci dice soltanto la dimensione relativa della nostra azienda, non certo quanto siamo bravi a competere (..ma chi se ne frega del mercato del nord Italia, se io non ho neppure uno straccio di rappresentante che lo visita? sarebbe come se volessi stimare la mia quota di presenza a Sidney, ove non ho mai messo piede …e, più in generale, chi se ne frega dei confini geografici, soprattutto nell’era del web?)
- un altro conto è tenere sotto controllo la nostra capacità di competere, nel tempo, con riferimento al mercato cui siamo in grado di accedere, e questo è un indicatore fondamentale per suggerire e orientare aggiustamenti alle nostre strategie di presenza (soprattutto se riusciamo a identificare e distinguere copertura e penetrazione).
Contro-obiezione alla seconda e alla terza obiezione:
- è vero che il metodo sopra visto è approssimativo, ma chi ha detto che sia l’unico disponibile e, soprattutto, chi ha detto che metodi più accurati siano costosi?
In attesa di approfondire questo tema, mi limito soltanto a ribadire che la quota di mercato — ossia la misura della porzione di domanda che riusciamo a soddisfare in uno specifico segmento, dato un certo mercato e un determinato contesto competitivo — è uno dei migliori indicatori (ovviamente non il solo) della nostra capacità di competere e di creare ricchezza, checché ne dicano alcuni guru che, per vendere qualche copia in più dei loro libercoli, sostengono che “la-quota-di-mercato-non-usa-più”: che sia perché non hanno la più pallida idea di come fare a stimarla senza spendere delle fortune? [segue, v. Efficacia)
POSTILLA
Per inciso, questo è il secondo di una serie di 8 post che, nelle mie intenzioni e in quelle degli amici e colleghi Alfonso Pace e Virgilio Gay (ne hanno scritti infatti altrettanti: i link vi mandano alle loro rispettive versioni di questo post) dovevano – e ancora dovrebbero – anticipare una nuova edizione dell’ormai attempato testo, attualmente out of print, richiamato in questa foto.
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